Daniele Cassioli ha trasformato la cecità in una forza motrice per ispirare gli altri, utilizzando lo sport come strumento di crescita e riscatto. Grazie al sostegno della sua famiglia, che ha sempre normalizzato la sua disabilità, ha scoperto nello sci nautico uno spazio di libertà e possibilità, arrivando a vincere 28 titoli mondiali e superando non solo i suoi limiti, ma anche le aspettative degli altri.
Un infortunio lo ha portato a esplorare una nuova strada: quella della formazione e dello storytelling. Attraverso incontri nelle scuole e interventi pubblici, Daniele ha iniziato a condividere la sua storia, rendendosi conto del suo potere trasformativo. Questo percorso lo ha portato a fondare Real Eyes Sport, un’associazione che promuove lo sport tra bambini con disabilità visiva, insegnando loro a superare le barriere con fiducia e determinazione.
Autore di due libri pubblicati da DeAgostini, Daniele affronta temi come resilienza e inclusione, sottolineando il valore dell’errore come opportunità di crescita. Oggi collabora con aziende e istituzioni come il Campus Bio-Medico di Roma per promuovere lo sport come strumento di trasformazione sociale, credendo fermamente che l’inclusione nasca dal cambiamento culturale e dal coraggio di affrontare i limiti con creatività e forza d’animo.
Daniele Cassioli ha sempre guardato oltre il buio. L’ha fatto per superare la propria cecità e tutti quegli ostacoli, sociali, umani, culturali, che lo hanno accompagnato sin da bambino.
Oggi è campione paralimpico di sci nautico, ha fondato un’associazione per diffondere lo sport tra bambini e adulti con disabilità visive, Real Eyes Sport, e ha scritto due libri pubblicati da DeAgostini.
L’abbiamo incontrato per fargli qualche domanda, e anche a noi è sembrato di vedere un po’ di quella sua luce.
Ma avremmo avuto bisogno di una vita intera per ascoltare e capire tutto.
Cominciamo con la domanda più difficile: dicci chi sei.
Vai: mi chiamo Daniele Cassioli, ho 38 anni e sono cieco dalla nascita.
Ah, così, ce lo dici come prima cosa.
Non come prima, la prima è sempre che sono Daniele Cassioli. Ma, nel tempo, diciamo che sono diventato la narrazione di me stesso. Cioè il mio lavoro, nella vita, è raccontarmi, e di solito parto da lì. Ma ci sono un sacco di altre cose di cui parliamo adesso, non preoccuparti, a partire dallo sport.
Allora vai, dicci che cosa significa per te lo sport.
Su che cosa significa, la risposta è molto, quasi tutto.
Quando ho intrapreso la mia carriera sportiva il mondo intorno a me ha iniziato a cambiare, io ho iniziato a cambiare per come mi rapportavo alla disabilità e alle discipline paralimpiche.
La mia sensibilità in qualche modo si è acuita, ho imparato a capire meglio quello che mi circondava e che mi riguardava in prima persona.
È pur vero che non è scontato per un bambino con una disabilità visiva avvicinarsi allo sport.
No, certo, e per questo devo ringraziare i miei genitori, perché la mia infanzia, per quanto segnata dalla cecità, non è stata solo all’insegna della mia disabilità, anzi: i miei hanno sempre cercato di normalizzare tutto.
Andavo a scuola, giocavo con gli amici, sognavo di essere il migliore nello sport: tutto mi sembrava raggiungibile grazie a quella famiglia che mi trattava prima di tutto come un bambino, e non come un “diverso”.
Ma in un mondo che non sempre è pronto a includere, la normalità non è per tutti un punto di partenza scontato, e io per primo mi sono accorto delle tantissime difficoltà.
Quando ho cominciato a muovere i primi passi verso l’autonomia ho trovato una marea di ostacoli: libri non disponibili in braille, gite scolastiche che sembravano impossibili, e lo sport, che diventava sempre di più un lusso che non potevo permettermi.
Come ti dicevo però, è stato quello a cambiare tutto.
Ho scoperto lo sci nautico un po’ per caso, perché abitavo vicino a un lago.
Avrei preferito fare altro, tipo calcio o tennis, ma mi sono accontentato, e così lo sci nautico è diventato il mio spazio di libertà, di possibilità.
Avevo un luogo dove realizzarmi, un’attività fatta di allenamenti quotidiani che mi spingevano a fare meglio, a imparare a conoscere il mio corpo e i suoi limiti.
Quello sport è diventato il centro della mia vita, e adesso ho vinto ventotto titoli mondiali.
Ho superato un bel po’ di limiti, di pregiudizi, ma, soprattutto, ho superato di gran lunga le aspettative degli altri.
C’è chi ha un dono, un talento.
Non è talento, o almeno, nel mio caso non solo.
Diventare campione ha significato per me un percorso di sacrifici e di perseveranza, e anche di incoscienza, di quella buona, che ti fa tentare l’impossibile anche quando tutto sembra giocare contro di te.
Ti sei messo anche a studiare e a lavorare, oltre alla tua carriera da sportivo, che non è poco.
Per me era una cosa normale, sia studiare sia lavorare. Cioè, c’erano tutti i miei amici vedenti che facevano o l’una o l’altra cosa o tutt’e due, perché io no?
Sono andato all’università, mi sono laureato in Fisioterapia e poi ho fatto quello, il fisioterapista (lo sport c’entrava sempre, alla fine).
Non dico che sia stato semplice, anzi. Il mondo del lavoro per le persone cieche è ostile come tutti gli altri, anche se c’è una difficoltà in più.
Però sono riuscito a ritagliarmi anche in quel frangente il mio spazio, infatti a un certo punto mi sono trovato a seguire una squadra di pallacanestro di serie A.
Lavoravo come un pazzo, pure dodici ore al giorno.
E da lì come sei passato a diventare la tua narrazione? Come hai cominciato a raccontarti?
È successo un po’ per caso un po’ per sfiga, perché nel 2016 mi sono fatto male a una spalla, e così tutto si è sospeso: lo sport, il lavoro, le mie attività, si è fermato tutto. Le cose potevano mettersi davvero male, avevo paura che la mia carriera nello sci nautico fosse finita, non stavo bene.
Poi però c’è stata un’occasione, e l’ho colta.
Durante il periodo di recupero, ho ricevuto una proposta insolita, non sapevo nemmeno come comportarmi: mi chiedono di andare in una scuola a parlare della mia esperienza di sportivo ai ragazzi.
Parlare della mia storia, della forza che c’è dentro ma anche della sua vulnerabilità, mi ha permesso di entrare in contatto con quei ragazzi e, me ne sono accorto, di ispirarli.
Allora mi sono detto: «ma io sono anni che sono dentro a questa situazione, da quando sono nato insomma, avrò imparato qualcosa, no?»
Ce l’avrò qualcosa da raccontare che non finisca solo sul trafiletto della “Prealpina”.
Allora comincio a costruirmi daccapo, a percorrere la strada del formatore e del divulgatore.
E non solo nelle scuole, perché a un certo punto una famiglia mi chiede di aiutare il figlio più piccolo con lo sci nautico.
Il bambino era cieco, come me.
Quindi siamo andati sul lago, insieme, io che gli raccontavo, lui che non ci credeva, e alla fine sai cos’è successo?
Che quella giornata sul lago ha cambiato tutto. I suoi mi dicevano che era un bambino timido e chiuso, che rinunciava tanto alla vita a causa della sua disabilità. Ma quel giorno ha imparato che le cose le può fare lo stesso, nonostante i suoi limiti.
Con quel bambino è cambiato qualcosa anche in me, perché ho capito che lo sport poteva essere molto più di una gara, che poteva diventare uno strumento di trasformazione personale e sociale.
È per quel bambino lì che ha ricominciato a capire che sì, ha dei limiti più degli altri, ma che alcuni li può superare – è per quel bambino che ho cominciato a investire energie per portare lo sci nautico e lo sport in giro per l’Italia, in quelle associazioni che coinvolgono i giovani con disabilità.
E su quell’esperienza lì, nel 2019 ho fondato Real Eyes Sport, la mia associazione, che punta a diffondere sport e inclusione, e oggi siamo più di trecento iscritti.
E che cosa fai nella tua associazione e altrove per diffondere sport e inclusione?
Be', nella mia associazione ora faccio un po’ il frontman, mi occupo delle questioni burocratiche, cerco fondi eccetera.
Però il lavoro da fare è enorme, anche se di passi avanti rispetto a dieci anni fa se ne sono fatti parecchi, grazie al Comitato paralimpico, di cui anch’io faccio parte come quota atleti.
Voglio dire, quest’anno abbiamo visto le Paralimpiadi di Parigi su Rai2, una cosa impensabile, no?
Certo che non tutti i bambini che vengono ai Camp che organizziamo, che fanno sci nautico e gli altri sport andranno lì, al Quirinale, a Tu si que vales, ma non è quello l’obiettivo: l’obiettivo è che calchino il palcoscenico della vita come tutti gli altri.
Che vivano e ne siano felici.
Lo sport in questo è fondamentale perché ti insegna la competenza dello stare in gruppo, anche quando fai uno sport solitario.
Ti insegna a essere competitivo ed empatico, a non arrenderti e a sapere quando quel limite è troppo in là rispetto a te.
E questo è fondamentale perché le persone con disabilità visive non restino isolate nel proprio buio, nel proprio cantuccio rassicurante fatto di visite mediche e percorsi sempre uguali.
Ora che avrai un ruolo anche nell’associazione sportiva del Campus Bio-Medico di Roma farai lo stesso anche lì?
Quella è l’idea, anche perché Paolo Campogrande, con cui lavorerò, è un visionario sull’inclusività che passa attraverso lo sport.
Paolo coinvolgerà i ragazzi e le ragazze del Campus perché lavorare con dei bambini ciechi è un’esperienza in primis per il formatore, che, soprattutto quando è normodotato, incontra un mondo completamente nuovo.
Dobbiamo portare a tutti, anche a chi andrà a formare i bambini, l’idea che lo sport è fondamentale, anche e forse in modo particolare quando si ha una disabilità.
Su Roma abbiamo questo progetto, che già coinvolge altre quindici città in Italia, e avere un partner come il Campus è, oltre che gratificante, molto utile per diffondere il nostro programma.
Tu hai scritto anche due libri, usciti per DeAgostini, e in uno dici: «Se le risposte non ti aiutano, devi cambiare le domande». Cioè?
Sai, il problema con la disabilità non sono tanto le infrastrutture o le leggi, l’inclusione non passa solo da lì.
Ci vuole una cultura nuova, ed è necessario partire dai ragazzi per educarli a una prospettiva diversa, ma il lavoro più duro è con i genitori, gli insegnanti e la comunità.
Troppo spesso, chi è vicino alle persone disabili tende – più che comprensibilmente – a proteggerle in maniera eccessiva, privandole di fatto dell’opportunità di confrontarsi col mondo reale.
Ecco, lo sport offre invece una possibilità che non hai da nessun’altra parte: quella di sbagliare. Se sbagli non succede niente, puoi riprovare e fare meglio, o sbagliare ancora e riprovarci all’infinito.
Questo va oltre il campo da gioco, ed è questo che intendo quando dico che bisogna cambiare le domande.
Forse non abbiamo bisogno solo di essere protetti, abbiamo anche bisogno del momento dell’errore, quello senza conseguenze gravi, quello del «cado e mi rialzo».
Io sono caduto un’infinità di volte, mica è andato sempre tutto bene.
Quando la mia ex ragazza mi ha mollato perché non vedevo non l’ho presa proprio benissimo, però avevo dalla mia tutti gli errori che avevo fatto nello sport, sapevo gestirla.
Ogni ostacolo deve spingerti a lavorare di più, su di te e su di lui, e pazienza se poi è insormontabile – esistono, smettiamola con la retorica che i disabili possono fare tutto, non è così: non è vero che «se vuoi, puoi»; è vero che devi imparare a volere, ma anche a lasciar andare.
La vera libertà sta tutta lì, nel conoscere i propri limiti e nel saper trovare modi creativi per superarli.
O per aggirarli, o per lasciarli lì dove sono.
Se tornassi indietro rifaresti tutto?
Sì. È troppo facile, dopo, correggersi.
E poi quello che sono lo devo a tutto quello che è successo, dallo sci nautico, alla ragazza che mi ha mollato, alla morte di mio fratello Davide, alla cecità, a Real Eyes Sport, a quel bambino sul lago.
Dimmi un’ultima cosa: qual è il tuo sport preferito?
Lo sci nautico, che domande. Però lo è diventato. Prima volevo fare il calciatore.
Cieco dalla nascita, atleta di fama mondiale e formatore appassionato, con 28 titoli mondiali nello sci nautico, 100 medaglie d'oro e il prestigioso Collare d'Oro al Merito Sportivo, Daniele ha trasformato una condizione di cecità in una vita piena di traguardi. Laureato in fisioterapia, ha inoltre mantenuto uno stretto legame con lo sport anche nella sua carriera professionale.
Nel 2018 ha pubblicato il romanzo autobiografico "Il vento contro" (DeAgostini), dove racconta con ironia le profondità il suo rapporto con la disabilità, traendone lezioni universali per la vita. Ha fondato Real Eyes Sport, un'associazione che promuove lo sport per bambini con minorazione visiva, e si dedica alla formazione aziendale, esplorando temi come diversity, inclusion e resilienza.
Attraverso le sue esperienze sportive e personali, condivide strategie di crescita e ispirazione in aula, in azienda e nei media, con l'obiettivo di trasformare ostacoli in opportunità. Dal 2022 per Rai cura la rubrica "Vedere oltre", dove analizza lo sport come metafora di vita, sottolineando i valori di perseveranza e adattamento.
Un lucida e appassionata riflessione sul tema della cura, a firma del professor Natalino Irti. Attraverso parole che invitano il pensiero a sostare e pause che suggeriscono il tempo di una riflessione profonda, si snoda una questione che, a partire da uno spunto etimologico, illumina aspetti normativi, filosofici e in ultima analisi vitali sulla natura di uno dei rapporti umani più delicati e intimi: quello tra medico e malato. Al centro di questa relazione si staglia il grande tema della libertà. Il malato è libero, capace di esercitare la propria volontà e il proprio diritto a essere informato in maniera adeguata: è poi compito del medico garantire questa libertà e fornire tutti gli strumenti necessari affinché la si impieghi senza vincoli. Quello tra medico e paziente è prima di tutto un rapporto tra esseri umani: «la malattia è un uomo malato». Non può esserci «tecnica della terapia» in assenza della «cura del paziente». È qui che scaturisce il tema della «dignità» dell’individuo e del suo personale percorso terapeutico.
La Research-based education rappresenta un modello di università basato sulla cosiddetta “competitive excellence” per attrarre e trattenere i migliori talenti e prepararli ad affrontare le sfide attuali.
La ricerca permette di affrontare le domande scientifiche della contemporaneità, studiando e analizzando i fenomeni con tutti gli strumenti a disposizione, in contatto con il mondo della innovazione pubblica e privata e coltivando il metodo e la cultura della “evidenza scientifica”.
Mediante la partecipazione personale ad attività laboratoriali e di simulazione, l'apprendimento si arricchisce e favorisce la capacità di approccio interdisciplinare alla conoscenza.
Il concetto di One Health rappresenta un approccio innovativo che vede la salute umana, quella animale e il benessere dell'ambiente perfettamente interconnessi tra loro.
Si tratta infatti di un nuovo modello di umanesimo tecnologico che integra discipline diverse per promuovere un benessere globale attraverso la collaborazione tra sanità, ambiente, istruzione, politica ed economia. Un paradigma che, oggi più che mai, si rivela cruciale per affrontare le sfide future legate alla salute, alla sostenibilità integrale oltre all’evoluzione della medicina con il supporto tecnologico come l’intelligenza artificiale.
One Health non è solo un obiettivo di prevenzione sanitaria: è una visione strategica per garantire la sostenibilità e il benessere collettivo, in linea con l'Agenda 2030.